LA CRISI DELLA NARRAZIONE: UN PROBLEMA EDUCATIVO

Di Carlo Petracca

1. L’epoca post-narrativa

L’era digitale sta facendo emergere il problema delliperconnessione soprattutto tra preadolescenti, adolescenti e giovani, ma anche tra adulti. Secondo l’indagine del Movimento Etico Digitale i ragazzi trascorrono online oltre 5 ore al giorno. Questo fenomeno crea, soprattutto tra gli adolescenti, dipendenza e persino patologie quali:

nomofobia ossia la paura di rimanere sconnessi dalla rete di telefonia mobile. Sembra una tragedia se non si ritrova il cellulare o se è stato lasciato a casa;

disturbi del sonno fino alla stessa insonnia, indotta dal bisogno di restare collegati in chat (vamping), che colpisce il 15% degli adolescenti;

 Internet Addiction Disorder (IAD) ovvero l’utilizzo intensivo e ossessivo di internet in tutte le sue forme, compreso il gioco online;

tendenza compulsiva a scattarsi foto intime da immettere in rete (sexsting);

cyberbullismo che si manifesta con le note azioni volte a imbarazzare, molestare e bullizzare qualcuno.

Secondo Byung Chul Han, filosofo sudcoreano di risonanza mondiale, che vive e insegna in Germania, la iperconnessione genera un’altra tendenza di cui finora non si è parlato a sufficienza e che ,secondo me, rappresenta un emergente problema educativo: la crisi della narrazione, titolo di un suo recente libro[1].

Secondo questo autore, la nostra è un’epoca post-narrativa in quanto l’arte del narrare, la capacità di tramandare non solo miti, favole e leggende, ma anche tradizioni ed esperienze di vita, sta annegando nel vuoto narrativo prodotto dall’informazione. Noi viviamo una vera e propria info-mania: siamo diventati divoratori di informazioni, zombies con il cellulare in mano anche quando attraversiamo la strada sulle strisce pedonali. Siamo sommersi dall’informazione e attratti in modo irresistibile da essa. Chul Han è molto esplicito:

Con le piattaforme digitali come Twitter, Facebook, Instagram o Snapchat, ci troviamo al cospetto del grado zero della prassi narrativa. Queste piattaforme non sono medium narrativi ma medium informativi. Lavorano secondo la regola dell’addizione e non della narrazione. Le informazioni che si susseguono l’una dietro l’altra non si condensano in un racconto[2].

Il vuoto narrativo provocato dalle piattaforme digitali genera, inoltre, la scissione tra vivere e raccontare e la vita, non presentandosi più come qualcosa che possa essere raccontata, diventa nuda:

La vita nell’epoca tardo-moderna è ‘nuda’ in un modo assolutamente peculiare. Le manca ogni ‘fantasia narrativa’. Le informazioni non possono essere legate le une alle altre per formare un racconto e così le cose cadono a pezzi. Il contesto di connessioni che istituisce il senso delle cose cede il passo a un essere-uno-accanto-all’altro o un essere-uno-dopo-l’altro di eventi svuotati di senso[3]

Siamo diventati, inoltre automi: arriva il messaggio e dobbiamo vedere immediatamente di cosa si tratta. Siamo come i piccioni affamati di Skinner che al segnale dovevano beccare il bottone di un determinato colore per avere il chicco di grano! L’informazione si trasforma in uno tsunami che ci investe, ci travolge e ci trasporta in un altrove. Secondo Chul Han:

Ci troviamo, oggi, storditi dalla frenesia dell’informazione e della comunicazione. E perciò non siamo più padroni della comunicazione. Siamo, al contrario, esposti ad uno scambio accelerato di informazioni che sfugge al nostro controllo cosciente. La comunicazione viene sempre più pilotata dall’esterno e sembra obbedire a un processo automatico, meccanico, controllato da algoritmi, un processo del quale noi non siamo coscienti[4].

2. I problemi dell’iperconnessione: atrofia del tempo, frenesia e velocità del vivere e del pensare

Quali sono i problemi, soprattutto per i giovani, provocati dal restare immersi e sommersi nel/dall’informazione?

L’informazione àncora l’esperienza di vita all’attuale, al momento, al contingente. Questo genera un fenomeno molto preoccupante a livello educativo: l’atrofia del tempo:

Le informazioni frammentano il tempo. Il tempo si contrae nello ‘stretto binario dell’attualità’ a cui mancano l’estensione e la profondità. Il bisogno compulsivo di attualità destabilizza la vita. Il passato non ha più efficacia nel presente e il futuro si contrae in un aggiornamento permanente di ciò che è attuale. Noi, dunque, esistiamo senza ‘storia’, poiché il racconto è una ‘storia’ [5].

In effetti, se ci riflettiamo, il tempo ha tre dimensioni e oggi siamo portati a viverne solo una: siamo schiacciati nel presente e dal presente. Tutto si consuma in un attimo, nulla resta e conta solo il momento.

Secondo me, l’atrofia del tempo si riflette anche sulla costruzione dell’identità che è un processo tipico e importante dell’adolescenza. Un’identità senza passato e senza futuro è imperfetta perché nel passato sono racchiuse esperienze, emozioni, sentimenti e valori che si rimpastano nel presente e trasformano dinamicamente la nostra identità.

Un’identità senza futuro viene a contenere la costruzione del sé immaginato e persino sognato, che determina alcuni comportamenti contestuali dei giovani: la motivazione all’apprendimento; l’investimento nello studio; il posticipo della gratificazione; la riduzione dei comportamenti a rischio; la buona integrazione sociale e impegno sociale. Se voglio “diventare qualcuno” devo mettere in atto alcuni, se non tutti, dei comportamenti sopraelencati.

Il navigatore di piattaforme digitali, inoltre, è divorato, secondo Chul Han, dalla velocità: lo scambio deve essere istantaneo, non possiamo aspettare. Tutto si risolve nel “presto e subito”: il tempo di un like o di un’emoticon. La velocità non avviene solo nello scambio, ma anche nella permanenza delle informazioni nelle piattaforme: non più di 24 ore su Instagram! L’informazione e i selfie non sopravvivono oltre l’attimo stesso in cui vengono annunciati:

 Anche i selfie sono ‘fotografie che durano un istante’. Essi valgono solo per il momento. Diversamente dalle fotografie analogiche, intese come medium del ricordo, non sono nient’altro che fugaci informazioni visive. Diversamente dalle fotografie analogiche, i selfie svaniscono per sempre dopo il breve lasso di tempo necessario per essere notati. I selfie non sono un supporto per il ricordo, ma sono al servizio della comunicazione[6].

La velocità dello scambio e della permanenza dei messaggi provoca diverse conseguenze:

a) La frenesia e l’iperattività dei giovani fino all’incremento di forme di ADHD (Attention Deficit HIperactivity Disorder). Sappiamo che la mancanza di attenzione prolungata o comunque una sua riduzione è fattore di insuccesso nell’apprendimento;

b) La lettura frammentata ossia una lettura a sprazzi dei testi e il loro abbandono prima della fine, alla rincorsa di altri testi/messaggi che scorriamo ancora velocemente alla ricerca di non si sa cosa!

c) La precocità di estinzione dei messaggi reca il sentimento di precarietà, la mancanza di stabilità e l’insicurezza del La velocità con cui l’informazione si consuma si proietta sul nostro vivere che perde stabilità;

d) Se manca l’essere la vita del phono sapiens diventa nuda, esteriore, scandita dai continui selfie che servono a coprire il silenzio di un vuoto interiore:

Le stesse storie condivise sulle piattaforme social non sono in grado di colmare il vuoto narrativo. Esse non sono nient’altro che una pornografica esibizione e promozione di sé stessi. Postare, mettere like e condividere, proprio perché sono pratiche consumistiche, non fanno altro che intensificare la crisi dell’esperienza narrativa[7].

e) Da tutto questo nasce l’angoscia tipica del nostro tempo, accentuata anche dalla forte instabilità dei nostri modelli comunicativi, relazionali e valoriali.

3. Il recupero della narrazione

Di fronte a questo scenario cosa dobbiamo fare? Buttare in mare i cellulari? Certamente no. Secondo Chul Han bisogna recuperare la narrazione perché i racconti:

a) non si limitano ad informare, ma forniscono interpretazioni del mondo e dell’esperienza di vita: Chi narra… si immerge nella vita e tesse al suo interno nuovi fili tra gli eventi… Tutto appare significativo. Ed è proprio grazie alla narrazione che sfuggiamo alla contingenza del vivere[8]

b) proiettano uno sguardo sul futuro di cui i giovani hanno bisogno per la costruzione della propria identità: Solo la prassi narrativa apre il futuro nella misura in cui ci offre la possibilità di sperare[9].

c) donano coesione alla propria identità e promuovono la stabilità dell’essere: All’informazione manca la stabilità dell’essere… Essere e informazione si escludono a vicenda. E’ connaturata alla società dell’informazione una ‘mancanza di essere, un oblio dell’essere[10].

 d) rendono possibile l’emergere di una comunità:

 Le storie congiungono le persone le une alle altre, favorendo la capacità di empatizzare. Da esse emerge una comunità[11]… Lo storytelling, di contro, dà forma solo a una community, che è la versione mercificata della comunità. La community è composta da consumatori. Nessuno storytelling sarebbe in grado di accendere nuovamente quel fuoco intorno al quale gli essere umani si raccolgono per raccontarsi l’un l’altro delle storie. Il fuoco si è spento da tempo[12].

e) potenziano la capacità di ascolto e di attenzione che i nostri studenti stanno perdendo:

Raccontare presuppone, di contro, un restare in ascolto e un’attenzione profonda. La comunità narrativa è una comunità i cui partecipanti restano in ascolto. Noi, però, perdiamo a vista d’occhio la pazienza necessaria per restare in ascolto, cioè la pazienza necessaria per raccontare[13].

Narrare e restare in ascolto si co-appartengono. La comunità narrativa è una ‘comunità che resta in ascolto. Nel restare in ascolto abita una particolare forma di attenzione. Colui che resta in ascolto dimentica se stesso, sprofonda in ciò che ascolta…[14].

4. Il ruolo della scuola

In che modo recuperare la narrazione a scuola e in famiglia? Chul Han non fornisce risposte, si limita all’analisi. Io ho cercato alcune risposte (poche in effetti) tra i pensieri espressi in questi anni nei miei scritti. Sono certo che altri appassionati di scuola e di educazione, come me, ne troveranno altre.

Per incentivare le forme narrative e sottrarre i giovani dalla schiavitù dell’informazione gli insegnanti dovrebbero cercare di porre in atto i seguenti comportamenti didattici:

a) Dare molto spazio ai contenuti narrativi (miti, leggende, favole, fiabe e romanzi). Ho apprezzato molto quanto hanno richiesto gli insegnanti ai miei nipoti per le vacanze estive e natalizie: non i tradizionali compiti di ripasso (come si diceva una volta) o di consolidamento (come si dice ora) bensì la lettura di romanzi scelti da una lista fornita direttamente da loro. Appena tornati a scuola ognuno ha dovuto raccontare un romanzo letto. In questo modo ogni alunno è stato immerso nella narrazione e si è trovato a “leggere” tanti romanzi quanti sono i compagni di classe! Anche durante l’anno si può avanzare la stessa richiesta e non si deve pensare di perdere tempo perché leggere produce tanti benefici (che non sto ad elencare) sia nell’apprendimento sia nella crescita personale;

b) Proporre biografie. Il precedente punto può sembrare compito esclusivo degli insegnanti di italiano. Gli insegnanti di altre discipline possono proporre la ricerca e la narrazione di episodi, vicende scientifiche e di vita di coloro che hanno prodotto scoperte e conquiste nel campo del sapere. Non è difficile reperire e consigliare biografie di scienziati, artisti, scrittori…: non quelle pesanti che gli insegnanti facevano studiare a noi, ma quelle singolari, ironiche, inconsuete;

c) Recuperare le conoscenze procedurali. Ogni disciplina non possiede solo il “cosa” ossia i contenuti, ma anche il “come” ossia le procedure messe in atto nel tempo per conquistare quelle conoscenze. Philippe Meirieu[15] fa comprendere bene questo concetto asserendo che non ha senso far apprendere quanto è lungo il diametro della terra, bensì far apprendere come hanno fatto a determinarne la lunghezza! Le conoscenze procedurali hanno una storia che va narrata per due motivi:

–  in primo luogo perché nella loro storia c’è il cammino cognitivo compiuto, ci sono i processi mentali attivati per arrivare alla scoperta delle conoscenze. Gli alunni in questo modo non apprendono solo il risultato ottenuto (le conoscenze conquistate), ma anche il cammino cognitivo compiuto dagli esperti disciplinari e ampliano in questo modo non tanto il bagaglio conoscitivo ma il loro potenziale cognitivo[16];

– in secondo luogo perché le conoscenze procedurali destano la motivazione ad apprendere e stimolano la naturale curiosità della mente, l’abitudine alla ricerca. Certamente è bello conoscere come hanno fatto a determinare la lunghezza del diametro della terra!

d) Ricorrere spesso alle autobiografie cognitive. Dopo aver svolto un compito di realtà, invitare gli alunni a ricostruire e raccontare tutto il cammino compiuto riferendo le difficoltà incontrate, le scoperte effettuate e le emozioni provate. Le autobiografie cognitive, insieme ai compiti di realtà e alle osservazioni sistematiche, sono ritenute, sia dalla letteratura scientifica sia dalla normativa attualmente in vigore, prove cui ricorrere per valutare le competenze[17]. Anche al di fuori dei compiti di realtà si possono invitare gli alunni a raccontare l’attività didattica svolta in classe in un certo periodo (tre settimane, un mese, ecc.) ed a scrivere un diario di bordo che racconti un’esperienza didattica, una visita guidata, un viaggio di istruzione. In questo modo il tempo recupera la dimensione diacronica e non si schiaccia sul presente.

5. Il ruolo della famiglia?

Di fronte all’iperconnessione i genitori non possono alzare le spalle e, pur riconoscendone i rischi, considerare questa tendenza come l’inevitabile male del secolo e, quindi, lasciare correre, anche perché loro stessi non sono virtuosi. Bisogna avere coraggio e opporsi. Di fronte a questi comportamenti dei figli non resta che adottare, come sosteneva Gianni Maria Bertin, una “aderenza reattiva” nel senso che non possiamo ignorare il fenomeno, ma accoglierlo (aderenza) e reagire con delle misure contrastive.

Sarebbe bello introdurre lo sconnessi-day, come alcune famiglie coraggiose stanno facendo, ossia stabilire un giorno in cui tutti i componenti della famiglia chiudono il cellulare. Mi rendo conto che questo è difficile perché oggi il cellulare è strumento di comunicazione quasi unico essendo scomparso il telefono fisso. Penso, però che non ci siano particolari difficoltà a introdurre lo sconnessi-lunch o dinner in modo da poter riempire questi momenti di disconnessione con la narrazione.

Lo tsunami dell’informazione ha invaso anche la famiglia. Spesso i colloqui dei genitori con i figli sono sintetici e si limitano a richiedere notizie che non si trasformano in storie. L’esempio classico è il colloquio, tra genitori e figli, al ritorno dalla scuola, che si riduce a queste informazioni: Com’è andata? Bene. Cosa è successo? Niente. Per trasformare questo scambio di battute (che non è assolutamente “colloquio”) in narrazione si dovrebbe fare ricorso a più domande: quali discipline hai avuto oggi?  Cosa ha spiegato l’insegnante di … e l’insegnante di…? Cosa ti è piaciuto particolarmente dei nuovi contenuti? Ci sono state interrogazioni? L’insegnante di … ha spiegato quel concetto che non avevi capito?  Le informazioni in questo modo si trasformano in narrazione.

Si può introdurre, ad esempio, un’altra abitudine: la domenica a pranzo ogni componente della famiglia è chiamato a raccontare un evento o un episodio, il più significativo, vissuto nella settimana. Il recupero della narrazione, inoltre, può avvenire se, una volta deciso che ogni componente della famiglia si impegna a leggere un romanzo, la domenica (o altro momento) ognuno racconta la parte letta nella settimana. Si può anche raccontare Dostoevskij ai piccoli! La narrazione non si può confinare alla sera per raccontare favole e fiabe ai bambini, prima di prendere sonno, e poi abbandonarla.

So che questo comportamento dei genitori risulta complesso perché non si dispone del tempo disteso, richiesto dalla narrazione, ma dobbiamo assumere anche la consapevolezza che l’educazione richiede tempo e non si educa in assenza di tempo!

 6. Per un impegno comunitario

Affinché questo problema possa avere un afflato comunitario e le risposte siano frutto dell’impegno di quanti hanno a cuore l’educazione dei giovani riporto il pensiero conclusivo di Byung Chul Han:

‘Vivere è narrare’. L’essere umano, in quanto ‘animal narrans’, si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza altre forme di vita. La prassi narrativa ha la forza del ‘nuovo inizio’. Ogni azione che avvia una trasformazione del mondo presuppone una narrazione[18]

[1] Byung Chul Han, La crisi della narrazione, Einaudi, Torino, 2024

[2] Idem, p. 40

[3] Idem, p.53

[4] Idem, pp. 21-22

[5] Idem, pp.31-32

[6] Idem, p.39

[7] Idem,  p. 9

[8] Idem, p. 59

[9] Idem, p. 32

[10] Idem, pp. 9-10

[11] Idem, p.11

[12] Idem, P. 8

[13] Idem, p. 11

[14] Idem, p. 19

[15] Cfr. Philippe Meirieu, Imparare… ma come? Cappelli, Bologna, 1990

[16] Cfr. Carlo Petracca, Sviluppare competenze… ma come? Lisciani, Teramo, 2015

[17] Cfr. Carlo Petracca, Valutare e certificare nella scuola, Lisciani, Teramo, 2015, pp. 91-107

[18] Byung Chul Han, op. cit., p. 110

 

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